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venerdì 19 febbraio 2010

Primo marzo, sciopero dei migranti

Quel che è avvenuto a Milano sabato scorso, maghrebini contro sudamericani e un pezzo di città messo a soqquadro, manifesta alcuni sintomi dei problemi che la nostra società si trova a vivere.
Tre anni fa nel capoluogo lombardo scoppiò la tensione della comunità cinese. Si tratta di conflitti tra comunità straniere o tra esse e la comunità italiana, che in una grande metropoli europea sono forse inevitabili.

Diverso è quanto avvenne a Castelvolturno a settembre del 2008 o poche settimane fa a Rosarno, quando la rivolta degli immigrati si rivolse contro la prepotenza delle organizzazioni criminali insediate nei territori delle regioni meridionali e contro lo sfruttamento del lavoro e per la dignità umana.

In ogni caso, la presenza di comunità straniere sul nostro territorio va vissuto come un segno dei tempi, che per essere compreso non ha bisogno di isterie, bensì di essere considerato come un fenomeno vasto e complesso da governare con intelligenza, non con la caccia all’uomo e la propaganda xenofoba.

Quando il presidente Berlusconi, al termine del consiglio dei ministri svoltosi a Reggio Calabria lo scorso 28 gennaio, ha affermato “meno immigrati clandestini uguale meno criminalità” ha fatto a mio parere proprio quello che non doveva: propaganda a sfondo xenofobo.

Quando i leghisti invocano “espulsioni casa per casa” usano espressioni che evocano le pagine più cupe della storia del Novecento. Purtroppo il perenne clima elettorale porta ad usare il linguaggio in maniera (volutamente o meno) eccessiva e questo è un pericolo.

In tale quadro si pone l’appuntamento del primo marzo, lo sciopero dei migranti promosso anche in Italia agganciandosi alla analoga iniziativa lanciata in Francia.

Più che nei suoi effetti pratici la giornata è significativa nella sua portata simbolica. I promotori dell’iniziativa si chiedono infatti: “Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni di italiani stanchi del razzismo?”

E nei commenti presenti sul sito www.primomarzo2010.it si può leggere: "Da tempo avevo un sogno: che per un giorno non ci fosse più uno straniero sul posto di lavoro: la mia panettiera turca, il medico del Togo, l'infermiera peruviana, il pizzaiolo egiziano, l'addetta marocchina alla consegna degli esami nella mia Asl, il giornalaio proveniente da un paese dell'Est, la cameriera libanese, il commesso cingalese del supermercato, il meccanico vietnamita, e così via. Più nessuno a servirci, curarci, darci il pane, prepararci la pizza, ripararci la macchina. Sognavo di vedere i razzisti implorare gli stranieri di tornare a lavorare".

Se pensiamo all’esercito di colf e badanti che accudiscono le case, i bambini, gli anziani, forse comprendiamo di quanto ci sia bisogno di loro. Non mancano gli studi che evidenziano come la nostra organizzazione sociale sarebbe gravemente compromessa da un’improvvisa scomparsa delle lavoratrici e dei lavoratori stranieri.

Certo: in tempo di crisi la coperta si fa più stretta e rischia di scoppiare la guerra tra i poveri. A Roma mi è capitato di vedere un anziano e dignitoso signore chiedere l’elemosina con un cartello sul quale era ben specificato: “sono italiano”.

Tutta l’attenzione va su clandestini, rivolte, espulsioni ma, magari, si dimentica che a Milano è stato ucciso un ragazzo egiziano, un pizzaiolo che il prossimo luglio avrebbe compiuto 20 anni e venerdì scorso era finalmente riuscito ad ottenere il permesso di soggiorno, dopo quattro anni di clandestinità.

Un ragazzo (non più clandestino!) è morto. Come un anno e mezzo fa Abba, cittadino italiano, nero, originario del Burkina Faso, ucciso a sprangate per aver rubato un pacco di biscotti. Anche nella tragedia può leggersi il semplice messaggio che la storia ci manda: la società del nostro futuro è meticcia, con buona pace dei razzisti di ogni risma.

Valerio De Nardo

Fonte: TusciaWeb

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