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giovedì 28 agosto 2008

Suicidi in carcere


(del 26/08/2008 in Editoriale)

Nel momento in cui lo Stato priva della libertà un cittadino e lo rinchiude in un carcere, si fa massimamente garante della sua sicurezza e della sua incolumità. Ma nelle carceri italiane si verificano qualcosa come 3.650 tentativi di suicidi l’anno
di Valter Vecellio
Come nella famosa Ballata del Miché di Fabrizio De Andre'. Quando hanno aperto la cella/era già tardi perché / con una corda al collo / freddo pendeva Miché…”. Si chiamava Giuseppe Pistorino, doveva scontare una condanna all’ergastolo per omicidio. Era detenuto nel carcere di San Gimignano. Ha preso un lenzuolo, lo ha ridotto in strisce, e si è impiccato. Qualche giorno prima, nel carcere di Sollicciano un ragazzo di 26 anni, incensurato, coinvolto in una inchiesta su truffe telefoniche, si è impiccato usando i lacci delle scarpe. Che un ragazzo in carcere da qualche giorno (carcerazione preventiva, dunque), incensurato, sia giunto alla conclusione che l’esser detenuto era qualcosa di più orribile del morire, dà il segno, la misura di che livello di mostruosità può raggiungere il carcere. Dalla Toscana, all’Abruzzo. Uno scarno flash dell’agenzia Italia riferisce di un tentato suicidio, nel carcere di Sulmona, sventato dal tempestivo intervento degli agenti della polizia penitenziaria: “Aveva ricevuto comunicazione di una difficoltà in ambito affettivo, per questo ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente...”. Questa volta è andata bene; ma rileggete bene il flash di agenzia: nella notizia, contiene una ulteriore clamorosa notizia: “…ha tentato il tragico ultimo gesto, quello che almeno dieci detenuti delle carceri italiane mettono in campo quotidianamente per sfuggire…”. Significa che nelle carceri italiane si verificano qualcosa come 3.650 tentativi di suicidi. Non ci si deve stancare mai di dirlo: nel momento in cui lo Stato priva della libertà un cittadino e lo rinchiude in un carcere, si fa massimamente garante della sua sicurezza e della sua incolumità. Dunque la responsabilità di ogni suicidio in carcere, per qualsivoglia ragione sia fatto o tentato, è da imputare allo Stato. Se poi dovesse essere confermato che ogni anno nelle carceri italiane sono circa 3.600 i tentati suicidi (ma ne basterebbero la metà, un quarto, un decimo), si assisterebbe a un qualcosa di inaudito; e che effettualmente, non viene udito, ascoltato: lo si apprende infatti, come per inciso, in un flash di agenzia. Passiamo alle cifre ufficiali. Nel 2007 quelli che vengono rubricati come “atti di autolesionismo in carcere” hanno riguardato 3.687 detenuti: 1.447 uomini italiani, 2.066 stranieri; 117 donne italiane, 57 straniere; e si continua a morire: nei primi sei mesi del 2008 i suicidi sono stati almeno 23 suicidi, un’altra trentina di detenuti sono morti per altra causa. Nel 2007 i suicidi sono stati 45: 43 gli uomini, di cui 16 stranieri. Altri 76 sono morti per cause più o meno “naturali”. La maggioranza dei suicidi riguarda persone in attesa di giudizio, con pochi giorni di detenzione alle spalle. “Perché”, spiegano gli esperti, “quello dell’ingresso in carcere è il momento più sconfortante”. Percentualmente, in carcere ci si uccide diciotto volte di più che all’esterno. L’anno in cui si sono registrati più decessi è stato il 2001: 69 suicidi su 177 morti dietro le sbarre; dal 2002 allo scorso anno invece, la media dei detenuti che si è tolto la vita in carcere si è mantenuto tra i 50 e i 57 casi. Il più giovane risulta essere Mihai, un ragazzo rumeno di vent’anni, che si è impiccato nel carcere di Viterbo. Il più anziano è Michele Greco, soprannominato “il Papa” della mafia: scontava un ergastolo nel carcere romano di Rebibbia; aveva 84 anni. Trenta decessi sono avvenuti in quello che viene definito “il quadro doloroso ed inquietante della detenzione nelle galere italiane”: dalla detenuta di nazionalità colombiana, incinta di sei mesi, morta nel carcere della Giudecca di Venezia (arrestata per aver fatto da “corriera” della cocaina in cambio di 1.400 euro), al tossicodipendente che si suicida preso dallo sconforto perché gli erano stati rifiutati gli arresti domiciliari. Si muore per suicidio, si muore in seguito a malattia; ma decine di morti vengono incredibilmente rubricate “per cause non ccertate”; e come sia accettabile che si possa morire in una struttura dello Stato, e non si sappia neppure perché o cosa ha determinato il decesso, evidentemente è qualcosa di inaccettabile. I decessi legati al mondo delle carceri non riguardano solo i detenuti. Cresce l’allarme suicidi tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria: 64 in dieci anni (1997-2007), già cinque nel 2008. Secondo il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria “sembrerebbe emergere che i recenti episodi di suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono in taluni casi, le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni”. La situazione attuale: i detenuti in attesa di condanna definitiva sono il 55,32 per cento, oltre il doppio della media europea, che sfiora il 25 per cento. Complessivamente, nelle carceri italiane sono stipate (dati aggiornati al 15 luglio) 54.605 detenuti, a fronte di 42.890 posti regolamentari. Negli ultimi sei mesi, i detenuti sono aumentati di quasi seimila unità: un aumento progressivo dovuto essenzialmente all’effetto provocato da due leggi: la ex Cirielli sulla recidiva; e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Gli stranieri detenuti sono 20.458 (il 37,4 per cento del totale), mentre nel 2000, prima dell’approvazione della legge Bossi-Fini, la percentuale era del 29,31 per cento. Si tratta soprattutto di persone originarie del Marocco, della Tunisia, della Romania e dell’Albania. Oltre 1.800 sono detenuti per irregolarità nell’ingresso nel nostro paese. Le donne detenute sono 2.385 (4,3 per cento del totale), 70 sono i bambini con età inferiore ai tre anni in carcere con le loro madri; 23 le detenute in stato di gravidanza. I detenuti impiegati in attività lavorative sono 13.326 (il 27,4 per cento del totale); di questi, 11.717 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (perlopiù “scopini”, scrivani, porta vitto); 1.609 sono impiegati per conto di ditte private. I corsi di formazione professionale in carcere, sono stati 556 per un totale di 6.465 detenuti (13,3 per cento). In molte carceri il discorso della riqualificazione e della formazione è improponibile per la “semplice” ragione che non dispongono di aule e spazi idonei alla didattica. da http://www.lucacoscioni.it/
Fonte: Atlantide Magazine.

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