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martedì 28 aprile 2009

Viterbo, nel bosco delle meraviglie di Bomarzo


23.04.2009
di Marta Forzan

“Chi con ciglia inarcate et labbra strette/non va per questo loco manco ammira/le famose del mondo moli sette”. Così scrisse nella pietra, Pier Francesco Orsini (detto Vicino), duca di Bomarzo, all’ingresso dell’estroso parco vicino a Viterbo.

Stupore e turbamento. Sospeso tra fantastico e realtà, tra storia e leggenda, Vicino era sicuro di cogliere sul volto del visitatore meraviglia e smarrimento, non certo di scompigliare le pagine dei più tenaci critici dell’epoca e di quelle a venire. Scarse e incerte le notizie sul magnifico bosco, sulla storia e sulla destinazione. Certo è che a idearlo fu lo stesso duca, verso il 1564, al termine di movimentate imprese, e dopo la morte della moglie Giulia Farnese.

Inquieto, guardando dall’alto del palazzo la valle ai suoi piedi, fantasticò di dare vita al bosco. Chiamò architetti, scultori e maestranze affinché scolpissero figure in quei sassi inerti. All’ombra delle querce cominciò a crescere una popolazione surreale e bizzarra fatta di fiere terrifiche, giganti, divinità pagane, orsi e draghi. Sculture erratiche ricavate da preesistenti blocchi rocciosi di peperino.

Sogno, fantasia e azzardo. In un rapporto sconcertante con la natura, un’avventurosa sequenza di apparizioni, ci viene incontro dalla vegetazione fino alla sommità del bosco coronata da un tempietto gotico. Si racconta che fu lo stesso Vicino a disegnare bizzarre sculture. Ma la naturale concezione plastica lascia supporre la guida di scultori e architetti dell’epoca come l’Ammannati e il Vignola.

Uomo d’armi, per i rigori di un’epoca scandita da guerre. Raffinato signore per velluti e pizzi. Accanito lettore di Lucrezio e Catullo, del Tasso e dell’Ariosto, trovò nelle opere di questi ultimi, l’Amadigi e l’Orlando Furioso, l’ispirazione del suo parco per dar sfogo alle inquietudini dell’anima e del corpo. Non certo favorito dalla natura che lo costrinse a portarsi dietro una lieve gibbosità, il signore di Bomarzo volle immortalare nella roccia qualcosa di se. Speranze e disillusioni di una vita segnata da scorribande, amori e intrighi.

Fantasia sfrenata e sdegnosa di qualsiasi regola. Difficile esplorare i margini di questa bizzarra iniziativa. Certo è che il Bosco di Bomarzo sconvolge gli ordinari canoni del giardino rinascimentale e ogni tradizione ‘architettonica’ dell’epoca. Una vera e propria “regia delle emozioni”, uno studio che predispone efficaci scenografie di quinte arboree, statue colossali e boschi dove l’acqua scrosciante e il vento sono musiche naturali.

Assai lontano dai fasti delle dimore medicee con parchi dai viali ordinati e simmetrici dove grotte, animali di marmo in movimento, voliere e viali di zampilli, promettono ore liete e spensierate, al riparo della vita ferrigna e appassionata del Rinascimento.

Con una luce morbida, quando la stagione esplode col verde più acceso, le creature di pietra sembrano senza passato, fuori del tempo quasi a sfidare l’angoscia delle abitudini. Il gigante nell’atto di squartare un malcapitato. L’elefante nell’atto di sollevare un guerriero. L’enorme tartaruga che sostiene la minuta figura di donna col piede posato su di una sfera. La fontana di Pegaso inghiottita dal leggero pendio che porta al grande ninfeo.

Anfitrite, la sposa del dio del mare, distesa su un convulso aggrovigliarsi di sirene, uomini ed emblemi araldici mentre osserva con ieratica solennità il mondo sconvolto che la circonda. La grande bocca aperta e le vuote orbite dell’Orco celano l’amara sentenza “ogni pensier vola”, una stanza con sedili e la tavola intagliata nella pietra. Non c’è nulla di mostruoso se non stravolgimento delle proporzioni, divagazioni stravaganti e sfrenate fantasie per sedare l’urgenza dell’espressione.

Lungo il percorso visioni spaventevoli si alternano a quelle allettanti di ninfe e sirene dai volti straordinariamente belli, fino al tempietto a chiusura del parco, opera del Vignola. Con questa romantica costruzione d’intonazione classica, Vicino Orsini, signore di Bomarzo, volle ricordare la moglie Giulia. Un inno all’amore, e una fuga dai mostri del parco e da quelli interiori.

Fonte: Il Reporter

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